Il pittore e il pesce

Non ho idea se Gianluigi Castelli conosca o meno l’opera di quello che viene considerato il padre della beat generation, e cioè di Raymond Carver, né sento la necessità di chiarirlo chiedendoglielo di persona, magari informandomi se ha letto per esempio i racconti raccolti in Cattedrale,oppure le poesie del Nuovo sentiero per la cascata. Non importa. Credo che la curiosità riguardi soltanto me e nessun altro, e credo anche che il rapporto tra Carver e Castelli sia del tutto fittizio, suggerito forse da particolari significanti soltanto per me.
Comunque sia, è a Carver che ho pensato guardando queste puntesecche, e in particolare a una poesia dal titolo Il pittore e il pesce. Siccome sono in vena di trasgredire tutte le regole che contraddistinguono la buona critica, mi permetto di commettere un imperdonabile sacrilegio e la “racconto”.
La poesia parla di un pittore che, dopo aver lavorato tutto il giorno, decide di telefonare a casa. La sua compagna gli dice che il tempo sta per finire. Non gli dice altro, solo questo e noi non sappiamo se intenda un tempo particolare o il Tempo vero e proprio. Comunque sia l’annuncio lo mette in agitazione, non riesce a dormire e allora decide di vagare per la città. Si reca in una segheria, e tutto ciò che vede, tutto ciò che incontra, scopre che è facile da ricordare.
Continua a camminare e inizia a piovere una pioggia leggera, e anche questa dice che è facile da ricordare. Arriva davanti a una casa, dentro questa casa scorge alcuni uomini che giocano a carte, e fra questi ce n’è uno che fuma la pipa regalandogli un’immagine facile da ricordare. Va al pontile. La pioggia adesso è forte e in più si sono aggiunti i lampi. Dall’acqua salta un pesce. Il pittore lo guarda lanciarsi nell’aria, scrollarsi tutto, ricadere, e a questo punto prova una specie di scossa come fosse testimone di un segno.
Torna a casa e si rimette a dipingere di buona lena, non sapendo se una sola tela gli sarebbe bastata.
Carver scrive: “ O tutto o niente. Lampi, acqua, / pesce, sigarette, carte, macchinari, / il cuore umano, quel vecchio porto”. Insomma, il pittore si mette a dipingere tutto quello che ha visto dopo che gli è stato detto che il tempo sta per finire.
Castelli è così. Un vortice di segni che si assemblano utilizzando le più svariate sintassi, senza risparmiarsene una, sia essa figurativa oppure verbale. Figura, colore e parola vengono allora trattati come segni in un’immagine caleidoscopica in cui ciascun elemento subisce una trasgressione semantica. La parola oltre al suo senso linguistico acquista valenze segniche, e allora gioca all’interno dell’immagine con la figura, che nel frattempo non si accontenta di mostrarsi come tale, ma reclama una decodificazione verbale.
Ne emerge una sorta di rebus col quale irride se stesso e gli altri, il mondo insomma, e se il discorso vale per i suoi Stendipensieri, per quelle sue installazioni della serie Torri e ruderi e quant’altro ancora, qui, con queste sue puntesecche, lo ribadisce con forza, anzi, pare quasi sorprendersi di volerlo rivelare. E’ una Babele di segni in cui interviene il linguaggio colto della citazione, oppure quello popolare del fumetto, la denuncia sociale, oppure il sarcasmo, fino a far convergere l’incanto del bambino e il disincanto dell’adulto che, per quanto deluso, decide di scegliere la strada dell’ironia, a volte tagliente, a volte definitiva, per narrare un mondo spesso fonte di amarezza.
La scelta stessa della puntasecca come tecnica incisoria la dice lunga. Castelli la sceglie per l’immediatezza del segno sulla lastra e per l’esito “sporco” ( le parole più o meno testuali sono sue). Risulta pertanto rafforzata persino nella decisione tecnica una certa volontà di trasandatezza che però non inganna. Castelli è ben consapevole del senso dello spazio, dell’armonia della pagina, della purezza del segno, al punto che ancora una volta mi viene in mente la prosa di Carver, così apparentemente immediata, spontanea, quasi inoffensiva, e invece così incisiva, spesso anche molesta per quel denunciare forme di perbenismo, di pochezza, di ipocrisia, di malessere fin nelle più insignificanti espressioni della vita.
Non s’illuda di incantarci Castelli, e ci riveli chi gli ha telefonato dicendogli che il tempo è finito.

Angelo Andreotti
(testo di Angelo Andreotti in occasione della mostra a palazzo Sormani – Milano 8- 30 giugno 2000)